Fuori dalla F.O.M.O.: video e app per essere meno (a)social

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“Non sempre ciò che viene dopo è progresso”

Rileggendo queste parole scritte da Manzoni quasi 200 anni fa, avverto un brivido.

Un brivido che parte dalle mie dita, come sempre tamburellanti su una tastiera, fino ad arrivare alla mia mente, che in questo post diventerà un campo di battaglia, dove si scontreranno quelle parole manzoniane così attuali e la mia passione per il web.

Si tratta di un conflitto inevitabile, dal momento che siamo sempre più circondati da ricerche, statistiche, campagne e video anti-social che vogliono farci prendere consapevolezza di ciò che siamo diventati…sì, di ciò che siamo diventati.

dipendenza social media

Sarà una frase dura, ma è questo l’obiettivo che si intende raggiungere: rappresentare un problema, farne prendere consapevolezza e poi spingerci ad agire, mettendo in atto un cambiamento nelle nostre abitudini.

Una sorta di comunicazione sociale, con oggetto la dipendenza da social media…o si tratta di qualcos’altro?

Non fraintendetemi, responsabilizzare sull’uso dei social è importantissimo, ma tutti coloro che hanno realizzato questi video (e che tra poco vi mostrerò) hanno senza dubbio tratto grande visibilità e dato vita a milioni di condivisioni, proprio sui social.

È l’ennesimo cane che si morde la coda…

 

…o davvero queste campagne riusciranno a farci riflettere?

F.O.M.O.: la malattia del nuovo millennio (?)

La dipendenza da social è qualcosa di reale, diffusissima non solo tra i cosiddetti nativi digitali, ma proprio tra quegli adulti cresciuti con al massimo i gettoni della cabina telefonica.

Sempre più oggetto di studio sono i suoi sintomi (depressione, ansia, agitazione, isolamento dalla realtà) e le diverse forme che può assumere: negli ultimi anni, infatti, abbiamo iniziato a parlare di F.O.M.O. (acronimo di Fear Of Missing Out), intesa come la paura di essere tagliati fuori e non solo dal flusso di post davanti ai nostri occhi.

 

Per F.O.M.O., infatti, si intende una paura più ampia, ovvero quella di non avere una vita interessante al pari di quella sbandierata dai nostri amici su Facebook o sugli altri social: è il senso di inadeguatezza, è il pensiero di non godere pienamente la propria vita, scatenato dagli aggiornamenti di status entusiastici dei nostri contatti e dai loro “selfies” sorridenti o romantici scattati ovunque.

E questo cosa potrebbe scatenare? Potrebbe scatenare una reazione, il bisogno di mostrare a tutti quanto è bella anche la nostra vita, spesso esagerando o addirittura mentendo.

In realtà si tratta di un’insicurezza vecchia quanto l’Uomo e che i social media hanno solo esasperato: la F.O.M.O. nasce dalla propria mente, dal proprio atteggiamento verso la vita e gli altri, dalla considerazione che si ha di sé.

Questo a dimostrazione che i social media non devono essere demonizzati in quanto tali: a dover essere condannata è l’idea che possano sostituire e non integrare la vita reale, è l’esasperazione dei soli lati negativi, è la cecità di fronte alle loro incredibili potenzialità, alle capacità di generare scambi di idee e reti di persone.

È possibile, infatti, trarre enormi vantaggi ed opportunità dalle reti costruite sui social (e a me accade ogni giorno), ma ne manca spesso la consapevolezza: come scritto in questo post dedicato proprio ai più giovani e al loro rapporto con i social, una macchina di grossa cilindrata messa in mani inesperte e ingenue, può provocare incidenti disastrosi”.

E nella migliore delle ipotesi, non permetterà mai al suo guidatore di apprezzare davvero la bellezza del viaggio.

Fuori dalla F.O.M.O.: il movimento anti-social

Come risposta a questa realtà, illuminata sempre più da smartphones e notifiche, è nato un vero e proprio trend di protesta: un movimento anti-social che da qualche mese imperversa nella rete attraverso video e campagne…ed ogni volta l’effetto virale è garantito.

Perché diventano virali?

Perché in quei video ritroviamo noi stessi e questo ci spaventa, spingendoci a volerli subito condividere con gli altri per diffondere il messaggio o chissà, per esorcizzare la paura di essere diventati come quei protagonisti.

Sicuramente un video di 2 minuti non può avere il potere di educare e cambiare le abitudini, ma la cosa più importante per chi lo realizza è far provare un istintivo senso di sgomento, accendere un’immediata presa di consapevolezza e il conseguente desiderio di condividerla con gli altri…poi poco importa se dopo un’ora torniamo a scorrere la nostra timeline in modo nevrotico.

Questo, ovviamente, non ne deve sminuire il messaggio…un messaggio che viene trasmesso attraverso storie e linguaggi diversi (proprio come accade nella comunicazione sociale), puntando sempre alla presa di coscienza e all’azione con l’immancabile, e più o meno esplicita, call to action finale: meno smartphones, più vita reale.

Ma davvero non riusciamo più a vivere senza smartphone?

Questo è stato l’interrogativo posto dal video pubblicato lo scorso anno dalla youtuber Charlene deGuzman dal titolo I Forgot My Phone e che ad oggi conta oltre 40 milioni di visualizzazioni: la forza del video sta nel confrontare una stessa attività, uno stesso momento della giornata con o senza smartphone…e il risultato non può che far riflettere.

 

A mio avviso una delle scene più forti è quella che vede la protagonista volteggiare su un’altalena, mentre la bambina a lei vicino gioca con lo smartphone: uno scontro generazionale e di immagini, un pugno allo stomaco a tutti noi che quando avevamo l’età di quella bimba, pensavamo che la sensazione di volare data da un’altalena, di sfiorare il cielo con un dito e voler andare più in alto per toccarlo, fosse la cosa più bella al mondo…una sensazione che nessuna tecnologia potrà mai dare.

Il pugno allo stomaco, però, si fa più doloroso con il prossimo video: si tratta dell’adattamento del fumetto Marc Maron: The social media generation di Zen Pencils dove il linguaggio si fa durissimo, quasi cruento e l’obiettivo è associare la dipendenza da social a quella da eroina

 

Toni più distesi ed ironici con iDiots, dove il team di Big Lazy Robots VFX ha provato a ricreare la società di oggi, immaginandoci come piccoli robot omologati e schiavi della tecnologia: unico avvertimento prima della visione è una buona dose di autoironia, perché come dichiarato dai loro ideatori “We all have an i-diot inside, and it’s so fun!”

 

Il video più recente riprende il tono usato da I Forgot My Phone e in poche settimane ha già superato le 30 milioni di visualizzazioni: si tratta di Look up, corto realizzato da Gary Turk che fin dal titolo nasconde l’invito ad alzare lo sguardo dal proprio smartphone per godere la “vita reale”.

“Look up from your phone. Shut down the display”: è questo il mantra ripetuto nel video che vede Gary recitare una poesia in rima sulle sfaccettature negative dei social media, a volte esagerando e altre volte mettendo in luce grandi verità.

Turk parte dal definire la tecnologia solo “un’illusione” che spinge ad autocelebrarsi e a condividere la parte migliore di sè per far brillare la propria vita; si rivolge a chi non riesce più a vivere un’esperienza senza il bisogno di condividerla in tempo reale con i propri contatti e ai genitori di quei bimbi che non giocano più nei giardini, ma solo con un iPad (e qui torna l’immagine dell’altalena ferma).

Senza mezzi termini ci definisce (includendo anche se stesso) dumb people, stupidi che buttano il proprio tempo dietro un’invenzione, senza cogliere le vere opportunità della vita: “give people your love, don’t give your likes”.

A proposito di amore, vi lascio scoprire il punto di forza di questo video:

 

Eh sì, le deviazioni del destino, quelle sliding doors anni ’90 che si chiudono lasciandoci ad un futuro diverso…tutto questo esercita da sempre un’attrazione incredibile e Look up lo ha dimostrato per l’ennesima volta.

La domanda di fondo, però, resta: siamo davvero diventati schiavi della ricerca di affermazione?

E se sì, come uscirne?

iDon’t: la app…contro le app!

I video che vi ho presentato propongono di lasciare a casa il proprio telefono o di spegnerlo, ma c’è qualcuno che ha avuto un’idea ancora più particolare e che sicuramente farà pensare e discutere.

Si tratta di Tommaso Martelli, esperto di comunicazione digitale e ideatore di iDon’t, l’app che controlla il nostro livello di dipendenza da social e ci disconnette appena superati i limiti.

iDont   Disintossicati dalle app

 

Partiamo dal principio, ovvero dalla scintilla che ha acceso in Tommaso la voglia di fare concretamente qualcosa contro la dipendenza da social:

“Un giorno camminando per strada ho visto due persone scontrarsi: entrambe stavano guardando gli schermi dei loro telefoni. E lì mi sono reso conto che ormai abbiamo un problema di dipendenza. Negli Stati Uniti la dipendenza dal web è già considerata una malattia, così ho chiesto aiuto ad un’amica psicologa per trovare un rimedio”.

E il rimedio l’ha cercato proprio là dove il problema continua ad alimentarsi ogni giorno: nello smartphone.

È ormai noto, infatti, che l’accesso alla rete da mobile abbia superato il computer e per di più un recente studio condotto da Somo ha rilevato come possessori di smartphone siano molto più attivi sui social media: in particolare l’84% del loro tempo (ovvero 8 minuti su 10) viene trascorso proprio sui social.

Di fronte a questa ulteriore evidenza, la scelta di Tommaso di pensare ad una app pare inevitabile…ma precisamente come funziona iDon’t?

Si parte da un test di dipendenza per individuare quanto tempo trascorriamo sui social (sacrificando la vita reale)…

idon't app

 

…si prosegue con l’impostazione, manuale o guidata dall’esito del precedente test, del tempo massimo di utilizzo di ogni nostra app…

idon't app

 

…e si conclude con la scelta di quali app bloccare e per quanto tempo.

 

Una volta raggiunto il 75% del tempo massimo di utilizzo, verremo avvisati da una notifica pop up, ma arrivati al 100% le app si bloccheranno automaticamente.

Il suo ideatore sta addirittura pensando ad un ulteriore deterrente futuro, ovvero lo sblocco del telefono solo dopo pagamento, ma ovviamente non sarà Tommaso a tenere cassa:

“L’utente non pagherà al gestore dell’app, ma creerà una sorta di salvadanaio virtuale al quale potrà accedere in qualunque momento”

La versione free è già disponibile su Android, ma prossimamente approderà anche su iOS insieme ad una versione a pagamento, che comprenderà grafici e statistiche per monitorare i propri progressi e un parental control da impostare sui dispositivi utilizzati dai propri bambini.

iDon’t è senza dubbio frutto di una mente brillante e creativa, ma lascia più di una perplessità e un certo senso di sconforto: se per guarire dalla dipendenza dai social, qualcuno ha pensato ad un’app, forse la situazione mostrata da tutti quei video non è così lontana dalla realtà.

E ora lascio a voi la parola: vi siete mai sentiti dipendenti dai social? E cosa pensate di iDon’t?

Alessandra Toni

Ciao, sono Alessandra, ma chiamami Ale. Sono una redattrice editoriale, da sempre appassionata di storie e parole. Per anni ho scritto di web writing e comunicazione, oggi parlo di libri ed editoria con il nuovo percorso WeBook Road.

2 Comments

  1. Ieri per strada ho incontrato 5 persone e solo una non camminava digitando qualcosa sullo smartphone.

    Un’app per essere meno dipendente? Alla fine dipendi da una app.

    La mia idea? Blocca il traffico dati sul cellulare e prendi una tariffa a consumo. Almeno, quando sei fuori, ti sarà impossibile navigare.

    • Sono d’accordo con te, Daniele: l’idea di iDon’t è senza dubbio particolare, ma mi ha lasciato molti dubbi…oltre ad avermi spaventato un po’.

      Mi spaventa l’idea di un’app che serva ad essere meno dipendenti dalle app (non è che così quel cane continuerà a mordersi la coda?)…mi spaventa il pensiero di test e timer impostati su una dipendenza…mi spaventa rendermi conto che per qualcuno non sia più sufficiente non scaricare quelle app sul proprio telefono (o come hai detto tu, bloccare il traffico dati), ma abbia bisogno di pagare per poter nuovamente accedervi.

      Davvero siamo a questo punto?

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