Quando le donne odiano altre donne

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“Sono anni che va avanti con questa faccenda delle critiche al suo fisico. Se le danno fastidio, che dimagrisca

“Ancoraaaaa…ma basta! Visto che ormai sono anni che dice le stesse cose, è evidente che ha dei problemi con il proprio corpo”

“A parte che sulla copertina è pure photoshoppata!!! L’ha fatta già Belen una copertina del genere, imitarla non mi sembra una mossa vincente.”

“Vanessa non sta bene con la testa. sta facendo solo tanta pubblicità. Se non è così deve andare da uno psicologo”

La donna cade sempre in basso!

Un po’ di sport e sana alimentazione e ci guadagni in salute: perché magro non è solo bello ma anche sano! 

Quelli che avete letto sono solo alcuni dei commenti alla arcinota copertina di Vanity Fair con Vanessa Incontrada immortalata nuda, che lancia un messaggio contro il body shaming del quale è stata vittima per anni. Un messaggio rivolto principalmente alle donne, vittime e molto spesso carnefici di questa ennesima piaga contemporanea (come se già non ne avessimo a sufficienza).

Non mi voglio qui soffermare su quanto sia stata giusta o forse anacronistica la scelta di Vanity Fair e della Incontrada, su quanto sia stato efficace o meno il messaggio; voglio soffermarmi, invece, su questi commenti, perché hanno una caratteristica comune.

Sono tutti scritti da donne.

E qui Hobbes mi perdonerà se mutuo la sua espressione più celebre (“Homo homini lupus”) e la declino in “Femina feminae lupa”.
Perché si sa. Noi siamo le peggiori nemiche, in primis di noi stesse, poi delle altre donne e potrei dire che la ragione principale di questa secolare mancanza di solidarietà si nasconde proprio in una delle parole latine utilizzate poco fa, “lupa”, che tra i vari significati, annovera pure il seguente: “prostituta, donna di incontenibile avidità sessuale, ninfomane”.

Vi pare che lupo, al maschile, abbia un simile significato? Niente affatto.
La risposta a tutto questo è una sola: una vischiosa cultura millenaria, durissima a morire, nella quale siamo immerse e che è all’origine non solo di pregiudizi nei confronti di donne e uomini, ma anche dell’incapacità di moltissime donne a collaborare tra loro.

Questo accade ovunque e in molteplici situazioni, ma immaginiamone due.
Situazione 1: sei una bellissima ragazza, hai ottenuto successo sul lavoro e magari hai anche uno splendido fidanzato? Ti ricopro di infamie, perché tu ce l’hai fatta (e chissà con quali mezzi poco leciti), mentre io no.
Situazione 2: non sei una bella ragazza, hai più anestetismi di me, sei sovrappeso, ma compari sulle copertine delle riviste? Ti ricopro di infamie, perché non ti meriti tutto questo e dovrei esserci io al tuo posto.

In entrambe le situazioni, la ragazza scatenerà una reazione negativa, che sia di invidia, rancore o semplicemente, di frustrazione. E le offese che riceverà saranno ancora più dolorose, perché la colpiranno nei punti giusti e la faranno sentire ancora meno accettata, perché sono arrivate da chi sentiva sue simili.
Assistiamo a tutto questo nella nostra quotidianità, ma ancor di più pubblicamente: lo abbiamo visto in questi anni proprio con Vanessa Incontrada, recentemente con la modella di Gucci Armine Harutyunyan e in moltissime altre occasioni, come quella di una meno risonante campagna fatta da Calzedonia quest’estate con protagonista una bellissima modella, rea di avere delle forme che non richiamassero quelle di un binario ferroviario e delle cosce con una circonferenza maggiore di quella di un grissino, ma che proprio per questo è stata criticata da altre donne.

Quindi, riepiloghiamo: ci indignamo quando la donna viene rappresentata solo come uno stimolo sessuale, boicottiamo gli stilisti che usano modelle con taglia 34, lottiamo quotidianamente per avere pari diritti degli uomini sul lavoro, ma poi ci critichiamo a vicenda, isoliamo chi è “diversa” da noi, godiamo nel fare lo sgambetto alle altre e nel vedere qualcuna cadere dalla propria posizione di potere faticosamente raggiunta. Ma perché ci odiamo così tanto?

La risposta sta proprio in quel magma culturale di cui vi scrivevo poco fa, vischioso, che resta attaccato alla pelle e ci condiziona ogni giorno.
Da lì nasce tutto: nasce l’immagine stereotipata di noi donne, per le quali la bellezza sembra debba accompagnarsi a un Q.I. pari a 50, ma anche di voi uomini, che non vi sentite liberi di esprimere le vostre emozioni senza essere apostrofati come “femminucce”. Da lì nasce il nostro senso di inadeguatezza, perché inadeguata è sempre stata la cultura nella quale siamo state immersi. Per millenni.

Molto interessante, in tal senso, è il libro “Il conflitto tra le donne” scritto da Sofie della Vanth, che riflette sulle ragioni profonde della competizione femminile, rintracciandole nei 5000 anni di cultura patriarcale.

In che senso? Nel senso che da millenni siamo abituate a una società che non ci vuol vedere cooperare, ma divise, perché insieme rappresentiamo una forza e una minaccia, il nostro agire collettivo per un bene comune spaventa e va ostacolato, genera un impatto. E la cosa non conviene. Il risultato è il conflitto che, come scrive l’autrice, “non è un problemino fra ‘isteriche’, ma il retaggio di un’antica ferita”.

Una ferita che invece di provare a curare insieme, dandoci una mano, viene stuzzicata quotidianamente come se ci buttassimo sopra quintalate di sale a vicenda.

Ci siamo, infatti, talmente “abituate” ai modelli propinati, da averli inconsapevolmente fatti nostri, spingendo molte donne a elaborare pensieri come “Chissà come è arrivata fin lì, l’avrà data sicuramente a qualcuno”, “È intelligente per essere bella”; a maschilizzarsi per far sentire di più la loro voce o farsi strada nel lavoro; a considerare meno credibile una donna comica di bell’aspetto; a fare illazioni sulle politiche più avvenenti; a fare commenti meramente di natura estetica su candidate donne e di natura professionale su candidati uomini. A percepire meno minaccioso un concorrente maschile rispetto a una concorrente femminile sul lavoro e, chiaramente, non perché lui abbia meno probabilità di successo. L’uomo, infatti, ne ha assai di più, ma in molte donne vedere qualcuna raggiungere una posizione di successo, scatena un’apparentemente incomprensibile invidia e questo perché in un mondo competitivo e irto di ostacoli come è il nostro, dove noi donne abbiamo di default meno porte aperte e più muri contro i quali sbattere, vederne una che conquista uno dei pochi posti a nostra disposizione, scatena rancore e non ammirazione: invece di vederla come un esempio positivo, facendo esclamare un esortativo “Voglio provare a essere come lei”, qualcuna ne uscirà fuori con un frustratissimo e desolante “Perché lei sì e io no?”.

A inizio anno la professoressa Shawn Andrews su Forbes ha analizzato la questione, avanzando alcune ipotesi. La prima si riallaccia proprio a quanto sto scrivendo: la Andrews sostiene, infatti, che ci sia una regola invisibile capace di modellare le interazioni tra donne sul lavoro e nella vita privata che si chiama “regola del potere tra pari” (espressione coniata da Pat Heim in “Hardball for Women: Winning at the Game of Business“). È una regola che governa relazioni, dinamiche di potere e autostima, ma in cosa consiste e cosa comporta? La regola prevede che affinché sia possibile una relazione sana tra donne, il livello di autostima e potere delle persone coinvolte deve essere pari, perché quando l’equilibrio viene spezzato, automaticamente le altre si sentiranno legittimate a parlare alle sue spalle, ostracizzarla, sminuirla. Sono comportamenti inconsci, ma che secondo l’autrice servono alle donne per preservare i rapporti di potere con cui le donne sono cresciute per tutta la vita. È conservazione.

E vogliamo parlare della “sindrome dell’ape regina”? Parliamone, perché oltre ad essere stata citata innumerevoli volte da quanto è stata formulata negli anni Settanta, beh…è drammaticamente vera. Si riferisce alle donne che assumono comportamenti maggiormente accettati dagli uomini (ad esempio, nascondere l’emotività), perché così pensano di dimostrare maggior tenacia, potere, capacità. Queste “api regine”, arrivate al vertice dopo molti sacrifici, vogliono affermarsi come “diverse da tutte le altre “, diventano arroganti, algide e si pongono ostili nei confronti delle donne subordinate. Della serie: “io sono arrivata fin qui, tu non ci provare a scavalcarmi”. E nel difendere il proprio territorio, pungono. Eccome se pungono. Mentre invece sarebbe così bello se una donna, arrivata al potere, aiutasse altre donne nel raggiungerlo.

Tutto quanto scritto finora, ma potrei andare oltre, serve a spiegare quanto di culturale, di secolare e radicato si nasconda dietro anche quei commenti alla foto di Vanessa Incontrada, dietro agli episodi di body shaming o a quelli di bullismo femminile.

Spetta a noi prendere consapevolezza di quanto sia deleterio il conflitto tra donne e di quanti vantaggi, al contrario, potrebbe portare la collaborazione e non solo a livello individuale: a beneficiarne sarebbe la collettività, il nostro percorso verso una maggiore acquisizione di diritti.

Non sono poche le ricerche che evidenziano come le donne capaci di collaborare tra loro siano quelle che ottengono maggior successo, anche nel business: proprio uno studio recente dell’Harvard Business Review rileva che mentre sia gli uomini che le donne traggono vantaggio dall’avere una rete di coetanei ben connessi tra diversi gruppi, le donne con una cerchia ristretta di contatti femminili hanno maggiori probabilità di raggiungere posizioni dirigenziali più autorevoli e con una paga più alta.

E anche a livello politico, l’azione collettiva delle donne è capace di enormi cose: basti pensare a fatti recenti, senza dover scomodare decenni passati, come alla rivolta in Bielorussia in seguito alla vittoria di Aleksandr Lukašenko dove un ruolo fondamentale è stato svolto proprio dalle donne: come scritto da Yasmeen Sehan su The Atlantic, “quello bielorusso non è l’unico caso di proteste di massa in cui emerge con particolare rilevanza il ruolo delle donne. Nell’ultimo decennio si sono contraddistinte come simboli di movimenti nati in posti molto lontani tra loro, dall’Algeria al Libano, dal Sudan agli Stati Uniti. Hanno animato le manifestazioni del 2019 contro una nuova legge sulla cittadinanza in India, le manifestazioni del 2018 contro il presidente Jair Bolsonaro in Brasile e molte delle rivoluzioni culminate nelle primavere arabe”.

Non resta altro, quindi, che allinearci con quanto affermato nel 2006 dall’ex segretaria di Stato Madeleine Albright: “There’s a special place in hell for women who don’t help each other”.

E chissà, forse in quell’inferno, incontreranno proprio quella famosa lupa, come se fossero finite in un vero girone dantesco.

Donne avvisate…

Alessandra Toni

Ciao, sono Alessandra, ma chiamami Ale. Sono una redattrice editoriale, da sempre appassionata di storie e parole. Per anni ho scritto di web writing e comunicazione, oggi parlo di libri ed editoria con il nuovo percorso WeBook Road.

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