Di dolori animaleschi, orchestre e palazzi in costruzione

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Qualcuno, un po’ di tempo fa, mi fece notare come di me, in questo spazio, uscisse poco. “Beh, è nato con altri intenti”, pensai.

O forse, sono io ad essere nata con altri intenti: quello di celare e di svelare solo a pochissimi.

Chi mi conosce nella vita reale sa che amo la poesia e c’è un passaggio del “Libro dell’inquietudine” di Pessoa che non solo sento vicino, ma proprio tatuato su di me: “La mia anima è una misteriosa orchestra; non so quali strumenti suonino e stridano, dentro di me: corde e arpe, timballi e tamburi. Mi conosco solo come una sinfonia.

Non sono certamente Pessoa (per talento, in primis), che si scomponeva artisticamente in più personalità per ricomporsi e comporre (da lì il fascino che esercita su di me), ma qui dentro c’è un gran affollamento di suoni e strumenti, di ritmi, di toni acuti e gravi, di esplosioni e silenzi. La ragione più semplice e da me abusata è sempre stata “Sono nata il 20 giugno 1986, a Prato, alle ore 3.30. Questa combinazione di fattori ha fatto di me una gemelli ascendenti gemelli, quindi abbiate pietà delle mie povere personalità”.

La ragione più profonda, invece, è che mi dovrei definire una piuma che si muove, leggera, in bilico tra introversione ed estroversione. Un’anima funambolesca che si apre e si chiude, proprio come fa una fisarmonica in un’orchestra. Il risultato è una sinfonia, forse un po’ complessa, per questo riservata solo a chi intende davvero comprare il biglietto. E fortunatamente nessuno, finora, ne ha chiesto il rimborso.

Io, di questo umile spettacolino, ne sono l’esecutrice, ma sono anche la maschera che ti accompagna in sala e solo se ti fai guardare davvero negli occhi, con onestà e trasparenza, capisco se puoi entrare.

Non è discriminazione, non è snobbismo; è semplice autoconservazione. È difesa. È paura.

Banale, vero?

In fondo, però, è così: solo chi teme, si nasconde. E se è come nel mio caso, eviti di mostrarti, perché hai imparato che appena gli altri iniziano a intravedere qualche dettaglio nascosto di te, lo assalgono, lo sbranano e non lasciano che brandelli al loro passaggio.

Sapete, lo scorso anno ho subito un trauma di quelli veri. Di quelli che non ti fanno più vivere con la stessa consapevolezza di prima, che ti lasciano un nuovo punto di vista su tutto, oltre a un bel “pacchettino” in dono fatto di nuove paure, insicurezze e incubi, sia di notte che di giorno. È impossibile vivere come prima quando ti capitano certe cose, devi resettare tutto e ripartire dalle poche certezze rimaste, per ricostruirne di nuove.

Vi giuro che a volte mi è mancato letteralmente il fiato. Non respiravo, forse perché anche il mio corpo si rifiutava di incamerare qualcosa che veniva da un mondo che non gli piaceva affatto.

Ho imparato tanto da quanto mi è accaduto e per metabolizzarlo, ho dovuto aspettare un lockdown, 50 giorni in solitaria dove non avevo scelta: o andavo avanti oppure mi arrendevo. E su una cosa sono sempre stata ferma nei miei quasi 35 anni: col cazzo che mi arrendo.

Lo scorso anno, però, la rabbia era ancora schiacciata dal palazzo della mia anima crollato su se stesso. Se ne stava lì, acquattata, in attesa che iniziassi a mettere le mani in quelle macerie brucianti. Ci voleva tempo e l’ho dovuto capire provando il dolore vero, imparando che ha delle sembianze animalesche.

Sapete, il dolore morde, è vorace, infimo. Non si accontenta della superficie.
Ha unghie, denti, piedi appuntiti che si conficcano in muscoli e organi che improvvisamente inizi a sentire, come se prima non fossero esistiti.
È strano come tu possa avvertire la presenza di qualcosa, solo quando inizia a far male, vero?
Senti lo stomaco, senti il cuore, senti il cervello, perché tutto si riduce in frammenti e a te spetta congiungere le mani, per recuperarli e metterli da parte.

Il dolore non solo morde, ma urla e tu non senti altro che lui. All’inizio ti sorprende fortissimo; è rabbioso, scatenato, furioso.
Poi il volume della sua voce inizia ad abbassarsi e si trasforma in un gemito.
Un suono costante, come un lavandino che perde, un chiodo impenitente sotto i colpi di un martello, un ronzio nelle orecchie che si insinua nel cranio. E lì va ad abitare.

Il dolore corre, si parcellizza in cellule maligne che dall’epicentro del tuo sisma si propagano come onde rapide. Una metastasi che fa franare tutto il resto.

Il dolore morde, urla, corre e ti fissa. Sì, ti guarda e tu non puoi fuggirgli.
Ti senti braccato, come una persona ferita che corre in un bosco, inseguita da un nemico senza volto. Stai perdendo sangue, la vista si annebbia, ma il suo sguardo resta vigile e tu non puoi abbassare la guardia.

No, non la puoi abbassare, ma solo alzare, perché la palla passa a te.

La stessa che ha buttato giù il palazzo della tua anima, una di quelle palle demolitrici, giganti, che riducono piani e stanze in macerie con la stessa facilità con cui una palla butta giù un birillo a bowling.

Ora tocca a te fermarla, posizionarla da una parte e iniziare a lavorare .

Perché solo con la distruzione, si può davvero iniziare a ricostruire. Piano dopo piano. Stanza dopo stanza.

E devo dire che il mio piccolo palazzo sta finalmente (ri)prendendo forma.

Alessandra Toni

Ciao, sono Alessandra, ma chiamami Ale. Sono una redattrice editoriale, da sempre appassionata di storie e parole. Per anni ho scritto di web writing e comunicazione, oggi parlo di libri ed editoria con il nuovo percorso WeBook Road.

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